Category Archives: Musica

Courtney Barnett: Sometimes I Sit and Think, and Sometimes I Just Sit.

barnett-courtney

Non è ancora uscito e già si sprecano i peana per “Sometimes…”, primo attesissimo album della ventisettenne (ma avrei detto almeno almeno sei/sette di meno) Courtney Barnett, di Sydney per l’anagrafe ma Brisbanita d’adozione cui sono bastati due EP e una manciata di canzoni per catalizzare l’attenzione di tutta la scena alternative. E’ giunto il tempo del raccolto, e per quanto io detesti il Pensiero Unico che caratterizza certe uscite discografiche, che sia dannato se la ragazza non si è meritata tutto quello che di buono le sta per capitare.

Il motivo per cui tutti la aspettavano al varco non è certo l’originalità delle scelte musicali (una disinvolta  e consapevola mistura di blues, Dylan, grunge) ma quella dei testi sì: i suoi inarrestabili flussi di coscienza, incoerenti e a volte imbarazzanti ma trasposti con garbo ed ironia sono qualcosa di inaspettato per una scena musicale usa ad autocommiserazione, autodistruzione, autocelebrazione ma mai – sino ad ora – a sedute di autocoscienza. E’ difficile persino raccontare di cosa parlano le canzoni di Courtney. Prendete la minihitAvant Gardener”, racconto di una giornata surreale che inizia con la decisione di pulire il giardino e finisce con una crisi d’asma su un’ambulanza. Non proprio la classica iconografia rock.
Il rischio insito in questo percorso è passare da adorabile a svitata, perché il materiale non si presta ad insistenza e ripetizioni, e un po’ tutti ci chiedevamo se Courtney avrebbe esaurito le cose da dire prima di approdare all’attesissimo album.  Beh, sono felice di rispondere: no. Ma nemmeno per idea.

Album scritto e registrato on the road – Courtney e la sua band negli ultimi due anni non si sono fermati un attimo, capitalizzando il successo del doppio EP “A Sea of Split Peas” con tour intensivi di USA, Australia ed Europa – Sometimes…  sfodera il sound solidissimo e aggressivo di una band abituata ad aggredire il palco cinque giorni a settimana, stemperato dal timbro vocale da junkie della sua leader e dalla sua cantilena ormai divenuta familiare.
L’antipasto “Pedestrian at best”, sorta di omaggio postumo ai Nirvana di “Smell Like Teen Spirit”,  non avrebbe potuto essere servito in momento e modo migliori: “mettimi su un piedistallo e saprò solo deluderti” cantava la Barnett con un autocompiacimento nascosto a stento, perché la canzone comunicava l’esatto contrario. Dal quel piedistallo Courtney apparecchia altre undici storie di lucidissima surrealità quotidiana; ma se ai tempi di “History Eraser” potevate prenderla per una ragazza che aveva fumato qualche spinello di troppo, qui la maschera è caduta: Courtney è una brillante poetessa delle miserie del nostro tempo, con un occhio a Raymond Carver e l’altro a Bret Easton Ellis, si concentra su dettagli che il resto del mondo trascura con una lirica lineare ma così attentamente cesellata da risultare perfino asciutta, a dispetto del fiume di parole che la esprime.
Difficile soffermarsi sui particolari senza banalizzarli: sarebbe come estrapolare frasi a caso da un libro di racconti, basti dire che il campionario di Courtney si è fatto più vasto, vivido, partecipato, tanto che in “An Illustration Of Loneliness” interrompe la narrazione di una notte insonne sussurrando “I’m thinking of you too” ad un’amante lontana, in un improvviso scatto di intimità tanto sorprendente quanto disarmante. E’ il vertice emotivo di un disco musicalmente ineguale, che privilegia i toni accesi (lo stomp di “Elevator Operator”, il garage di “Nobody Really Cares…”, una “Debbie Downer” che strizza l’occhio ai conterranei Hoodoo Gurus) ma non perde mai il fuoco, brillante e diretto dalla prima all’ultima nota.
E no, da quel piedistallo per il momento può anche non scendere. Se lo è meritato.
 

WDUB: le 20 canzoni del 2014

playlist14

 

1) Tele Novella: Trouble in paradise

Tele Novella // Trouble In Paradise from tina rivera on Vimeo.

L’anno era iniziato all’insegna di un singolo con tre pezzi straordinari, ma il seguito è stato ancora meglio:

Ricordano i momenti più felici (lett.) degli United States Of America, e siamo ancora in territorio Stereolab. Poi Arthur Lee, la soft-psichedelia West Coast, quella che era troppo presa a rosolarsi al sole per fare sul serio.
C’è un sottotesto teatrale/lirico, la perfetta rotondità delle strofe che è tutta roba moderna, modernissima: pop iterativo, in loop, senza centro.
Ma questo nuovo singolo è eccezionale in maniera quasi ridicola, è un salto in avanti (o all’indietro, visto il soggetto) da misurare in epoche; queste due canzoni aspettano che un Quentin Tarantino fra cinquant’anni le riscatti dall’oscurità e le faccia diventare oggetti di culto. Se lo meritano, perchè sono due meraviglie di lounge-psichedelico che nel 1995 avrebbero fatto sbavare chiunque da Simon Reynolds in giù e adesso invece sono fuori contesto come un hippy al MiAmi festival.
Cose che li fanno amare ancora di più, ovviamente.
Pop d’antan sciantosissimo, raffinato e classy come Trouble in Paradise non capita spesso di ascoltarlo: la voce da strega di Natalie che sibila tutte le S posSsibili a sottolineare il soggetto biblico anche per i non angolofoni, e la cosa davvero notevole è che i TN sono divertenti e autoironici quanto basta per non cadere nel manierismo.

Tele Novella, la band del 2014.

2) Twerps: Back to you

Li credevamo capaci solo di eterna indolenza lofi e invece, freschi di contratto con Merge, se ne escono con un prezioso bonbon iper pop che anticipa un album in uscita a gennaio; ma sotto le apparenze, Back To You è un pezzo che vive di contrasti, i punteggi di tastiere su un tappeto ininterrotto di chitarra e batteria a nascondere l’onnipresente senso di insoffisfazione. Di questo passo i Melbourniani rischiano di diventare la next big thing del 2015.

3) The Luxembourg Signal: Distant drive

Come hanno insegnato i Radio Dept qualche anno fa, basta il riff più azzeccato dell’anno a fare grande una canzone. I Luxembourg Signal – spinoff dei già adorati Aberdeen – il riff ce l’hanno e lo seppelliscono in echi e rimandi dreampop per rimarcare l’appartenenza al genere, senza disinnescarne il potenziale melodico. Un pezzo d’altri tempi, come i brividi che da anni procura la voce di Beth Arzy.

4) Girlpool: Alone at the show

Da principio fu Slutmouth, iperfemminismo alla moda del college, poi Paint Me Colors con i suoi saliscendi vocali e quegli accordi da busker, ma alla fine è arrivato Alone in The Show, formidabile pezzo di fine anno sulla compilation assemblata dalle ragazze di TheLeSigh, a mettere d’accordo tutti. E’ stato impossibile nel 2014 non accorgersi di queste due ragazze, che con le loro isolate e taglienti ballate per chitarra e voce hanno fatto innamorare chiunque dai due lato dell’oceano.

Una delizia dall’inizio alla fine, ma chi si aspetta dolcezza e leggerezza si prepari a ricevere un bel cazzotto nello stomaco.

5) Mac DeMarco: Goodbye weekend

Scegliere un solo pezzo in un album così organico e stipato di grandi popsongs come Salad Days è impossibile. La scelta cade su questa ballata sghemba che sta sui soliti due accordi stonati, fintamente ingenua come tutto il repertorio del nostro, ormai un fuoriclasse conclamato e slacker dell’anno, ma uno qualunque degli altri 10 andrebbe bene lo stesso.

6) Sleater-Kinney: Surface envy

Di solito in questi casi è d’obbligo scrivere frasi di circostanza sul modello “non mi ero reso conto di quanto mi mancassero i (nome della band) sino a quando non è uscito questo nuovo pezzo”, ma sarebbe una bugia. Le Sleater-Kinney sono mancate tantissimo e il loro ritorno – dopo quasi una decade! – è stata la miglior notizia musicale del 2014. Il nuovo anno porterà un album e probabilmente cose migliori di questo pezzo selvaggio che deve molto all’esperianza di Carrie coi Wild Flag, ma i grovigli di chitarre e l’urgenza della voce di Corin registrano che la capacità del trio di Olympia di riscrivere le regole pop-rock non è venuta meno. Ci perderemo ancora nell’universo S-K.

7) Let’s Wrestle: Rain ruins revolution

L’ armonia sinusoidale di Rain Ruins Revolution ha un fascino perverso e antico, ma non sarebbe davvero memorabile senza il primaverile tripudio di chitarre che i Let’s Wrestle gli costruiscono intorno.
Chitarre a grappolo, per mancanza di una definizione migliore. Nell’ incipit, e subito dopo un anonimo refrain, sono loro che travolgono tutto: la (s)forzata allegria del pezzo, il bridge appena trattenuto, per poi sciogliersi in un assolo liquido, tornare solide e infestare la coda, impossibili da dimenticare.
E’ un pezzo di stagione del risveglio Rain Ruins Revolution, e sta tutto nella polpa dei suoi accordi; rotonda ma affilata, concisa come da manuale, dice tutto in due minuti e mezzo e si ferma nell’esatto momento in cui esaurisce l’inerzia.

8) The Peep Tempel: Carol


E’ difficile credere che Carol sia solo il personaggio di una storia di amore e gelosia, talmente vivido e tagliente è il resoconto che ne danno gli Australiani Peep Tempel, ma è di questo che è fatta l’Arte. Che esista o meno, siamo tutti in quel pub a dirle che Trevor non è l’uomo giusto per lei mentre le chitarre montano in sottofondo sino ad eruttare.

E’ affilata come una lama, rovente come il rimorso. Al carico delle delusioni d’amore i Melbourniani Peep Temple aggiungono una rabbia incontinente, un rancore diffuso e soffocato che dissemina le note di un’angoscia palpabile e crescente, talmente densa da non riuscire a liberarsi nemmeno nell’inevitabile esplosione di chitarre.

9) Papernut Cambridge: The day the government went on strike

Da un album ricco e sorprendente come non se ne fanno più, un pezzo che non sarebbe stato male nel repertorio degli XTC di Go2: surreale, ironico, melodico, ossessivo. Altri diranno che Ian Button (già Death in Vegas) insegue troppe influenze, ma riuscire a farle convivere così felicemente non è cosa da tutti.

10) Darren Hayman & Emma Kupa: Boy, look at what you can’t have now

Lei, lasciata dal bellimbusto di turno, si tinge i capelli di nero come Joan Jett, perde una taglia sui fianchi e poi va giù al bar a dirgli “guarda, guarda cosa ti sei lasciato scappare”.
È un duetto favoloso, da due che sembrano nati per fare tutto tranne che cantare. Le voci sgangherate conferiscono all’improbabile storia di rivincita un aspetto meravigliosamente surreale, come se uno dei due ex amanti (lui? lei?) fosse sul punto di spezzarsi e far cadere il finto velo di indifferenza che li separa. Dolceamaro, come il pop deve essere, orgoglioso e malinconico al tempo stesso.

11) Archipelago: If I leave you don’t cry

Beh, i primi 40 secondi sono così belli, le voci che giocano a rimpiattino e le tastiere che le punteggiano come una pioggia leggera, che tutto quello che riesco a pensare è “Vi prego no, non rovinate tutto”.
Sorpresa: no, non rovinano. Non del tutto.

Quel primo minuto di canzone evolve in synthpop carico di reminescenze 80, magari non particolarmente originale ma capace di risuonare nell’ascoltatore. Fosse un po’ meno ruffiana, la popelettronica degli svedesi Archipelago sarebbe da conservare in eterno, invece di consegnarsi alla stessa dimenticabilità di tutte le band post-Air, ma questo non deve impedirci di goderne adesso.

12) Tunabunny: Coming for you

Sino ad un anno fa sarebbe stato impossibile parlare di un singolo pezzo dei Tunabunny, separarlo dal contesto dei loro album, spiegarlo ai non adepti. Poi sono arrivati i due minuti di Coming For You, aggiornamento del dreampop all’estetica Tunabunniana, magia allo stato puro come tutto l’album Kingdom Technology.

Che è bellissimo e sconcertante, si nasconde e si schernisce e poi ti colpisce allo stomaco quando meno te lo aspetti. Ha una qualità infestante che i predecessori non avevano.

13) Frankie Cosmos: Fireman

Non mi sarei mai aspettato che questa piccola e brevissima canzoncina mi avrebbe accompagnato per tutto l’anno, che non mi sarei mai stancato di ascoltare le sue zuccherose armonie. Ma questa è la magia di Frankie, arrivata in punta di piedi e impostasi con un album timido ed irresistibile.

La traccia vocale è un unico, ininterrotto crescendo emotivo che si autoravviva in step successivi, si interrompe e riparte . Il pattern regolare delle tastiere lo punteggia in maniera misteriosa e ed implacabile, sospingendolo gentilmente in avanti senza mai rilasciarne la tensione. Ecco il segreto: un’ansia che cresce e non cede mai.
Sono sessantasei secondi in tutto, ed ogni singola volta che li ascolto, brividi mi percorrono la schiena. Frankie avrebbe potuto farlo durare sessanta minuti, senza variazioni, e sarei rimasto incollato a quell’ipnotismo di tastiere, a quei fragilissimi e quasi inaudibili arpeggi, senza scampo.

14) Babaganouj: Too late for love

Dalla diaspora delle fantastiche Go Violets sono venute solo cose belle, per quanto non (ancora) durature. C’era da aspettarselo.
Qua c’è all’opera metà del gruppo (Harriette e Ruby) al servizio del genietto Jeremy Neale, e in attesa dei nuovi frutti dell’estate Australiana, godiamo di questo estemporaneo rinascimento pop down under.

Nel fantastico refrain di Too Late for Love ci sono fuzzbox e romanticismo, gli Hoodoo Gurus, l’essenza del pop Australiano, l’estate caldissima e gli spazi aperti, l’isolamento e i Koala. Arriva con il sole e al sole appartiene.

15) Hospitality: It’s not serious

Unico gioiello di un disco malriuscito e a tratti indisponente, It’s Not Serious ci ricorda tutto quello che ha reso preziosi gli Hospitality pre-Trouble: un intimismo prezioso e ammiccante, accompagnato da melodie ondeggianti sulla base ritmica e dalla voce sexy di Amber. It’s not Serious è la promessa di una notte meravigliosa, e raggiunge inaudite vette di seduzione. Quando Amber fa l’occhiolino e sussurra “dì alle altre ragazze che starai fuori tutta la notte” è difficile rimanere impassibili.

16) Hello Saferide: I was Jesus

Otto lunghi anni da More Modern Short Stories. Annika si è fatta aspettare come i migliori romanzieri, perchè occorre mettere un po’ di vita tra una storia e l’altra.
Le è bastato poco – giusto due album e un EP in inglese – per diventare uno di quei personaggi infallibili cui ci si affida sulla fiducia. Una reinassance woman, si sarebbe detto una volta, il Re Mida del racconto in musica.
I Was Jesus non fa eccezione: potete ridere del suo arrangiamento, ma dopo dieci secondi la storia di Gesù, Gandhi e Martin Luther King che tornano in forma di donna (stavolta) solo per ricevere cortesi ma fermi dinieghi, raccontata con garbo ed elusiva, surreale ironia nordica vi farà piangere di gioia e commozione, ancora.

17) Outside World: I know you

Sentite come cresce il pezzo: così attento, lento, ambiguo, la scansione dei ritmi, la sovrapposizione delle voci e più di tutto ancora il senso di understatement che traspare da tutto quello che fanno i tre ragazzi. E’ come se scolpissero le armonie dentro la struttura ritmica, con un effetto al tempo stesso grezzo e soave.
Dico: sono di New York, anzi, suonano a New York, avrebbero tutte le ragioni per tirarsela e invece producono queste piccole, rozze gemme pop in un isolamento che ha i segni dell’indolenza; scolpiscono le melodie come farebbe un artigiano di Orzinuovi. Se davvero suonano a NY lo fanno in un angolo di qualche Starbucks di fronte a impiegati che consultano google all’ora di pranzo.

Outside World vengono dagli anni 90 dei Guided by Voices e ancora prima, da quella scena indipendente dei College USA oscurata per sempre e lasciata a seccare dal grunge, ed è una scelta da perdenti impossibile da non apprezzare. Antinconvenzionali, come volessero applicare la lezione dei Pavement a una materia che non è fatta per sopportarla, ma a dire il vero la cosa migliore degli Outside World è che non si capisce perché lo fanno, né dove vogliono andare.

18) Baby Mollusk: Always mad

Progetto da cameretta della timidissima e talentuosa Rachel Gordon da Purchase, NY (stesso college di Frankie Cosmos, incidentalmente), la musica di Baby Mollusk è pop fatto di sentimenti, eppure percorso da una vena punk e ribelle che ne sottolinea i passaggi più aspri e amari come uno studente segna con il pennarello le frasi da ricordare; bedroom-pop che esce dalla cameretta e va a comprare un distorsore ma rimane indicibilmente tenero, sbilenco, dolcissimo. Ognuno dei suoi pezzi è uno scontro fra delicatezze acustiche ed accessi elettrici, accelerazioni e decelerazioni che accompagnano la voce morbida di Rachel mentre canta piccole canzoni di desiderio, rifiuto, conforto. Le cose che riempiono il suo diario di diciannovenne e in un mondo perfetto popolerebbero ogni canzone pop da qui alla fine del mondo.

19) Tacocat: Psychedelic Quinceañera

Contro ogni pronostico, NVM degli adorabili Tacocat è stato l’album che ho ascoltato con più assiduità durante l’anno. Sembrava fatto per durare qualche settimana, con tutti quegli hook a presa rapida, e invece è rimasto giovane ed eccitante come la band che gli ha dato forma. Impossibile scegliere un grano solo, ma la storia di Consuelo e della sue festa per i quindici anni con sorpresa batte, seppure di un soffio, i ponti immaginari per le Hawaii e le celebrazioni del clclo mestruale al ritmo di surf-rock.

20) Iceage: The Lord’s Favourite

Fra i numerosi – e spesso inspiegabili – beniamini della cricca indierock che conta (Pitchfork ed affini), i danesi mi sembrano gli unici ad aver sviluppato una formula musicale capace di elevarsi dalla media: la ricetta di The Lord’s Favourite in particolare – parti uguali di Ian Curtis e Nick Cave con afflato rockabilly – è realizzata con notevole faccia tosta, ma il risultato è ineccepibile e in ultima analisi inattaccabile. Il crosssover alla moda del 2014.

Some days #55: Popguns

popguns
Ci sono momenti in cui la nostalgia diventa solida, tagliente.
Eppure sono un fermo sostenitore della temporalità della musica pop. Aka “Se sei stato rilevante trent’anni fa, è altamente improbabile che tu lo possa essere oggi. Anzi, no: è impossibile”. Aderisco strettamente anche alla teoria del terzo disco sbagliato: se un artista/band fa un disco brutto che segue un altro disco brutto, non farà mai più nulla di buono nel resto della sua carriera. Un po’ brutale, ma uno deve pur selezionare. Guardate i REM dopo “Around the Sun”: ho forse torto?
Il fatto è che che tante band che adoravo negli anni 80 si sono rimesse a suonare in questi ultimi anni. I Primitives, persino i Flatmates, e dopo cinque secondi di ascolto avevo già deciso che no, non mi serviva un secondo disco brutto.

I Popguns sono un’altra questione, però. Tanto per cominciare non sono mai stati una delle mie band preferite. Erano nel mucchio di ciò che mi ha fatto amare l’indiepop, e come ogni popjunkie della mia epoca ho “Love Junky” acquistato di seconda mano, ma lo ascolto raramente. Mi basta l’occasionale pezzo nella occasionale raccolta, che poi in realtà è quasi sempre lo stesso e si intitola “Waiting for the winter”, gemma guitarpop che potrebbe essere uscita dalla penna degli Heavenly con un’altalena melodica killer.
Anche così, mi è servita più di mezza canzone per accorgermi della citazione:

Sì certo, bastava leggere il titolo, ma il fatto è che “Still Waiting fo the Winter” è canzone degnissima per proprio conto, con un refrain carico di misteriosa nostalgia che già al primo ascolto fa pensare “Però, i Popguns!” e non invoca il passato per chiedere indulgenza. Ma quando a venti secondi dalla fine Wendy ha intonato il ritornello di “Waiting for the Winter” in sovraincisione ho realizzato quanto fossi stato stupido, e distratto. Anzi, non l’ho realizzato affatto perché un brivido mi ha percorso inarrestabile la schiena e ho avuto freddo per tutto il resto del giorno.

Cosa dicevo sulla nostalgia?

Some days #54: By The Sea

bythesea

Lo avevo scritto ad inizio anno a proposito degli scozzesi Dora Maar, novelli Postcard fanboys, ma è validissimo anche per loro:

Dovremmo lodare un’opera di restaurazione che ha nella fedeltà il suo primo, indubitabile pregio soltanto perché riguarda un genere che percepiamo come ingiustamente trascurato, o peggio ancora che abbiamo eletto a nostra personale riserva di musica nella quale tutto è permesso, purchè sia in canone?
Ovviamente la risposta è SÌ. L’originalità è sopravvalutata.

 

 
I By The Sea dalla penisola di Wirral (quasi Galles), incidono questo piccolo omaggio ai Pale Fountains e sono accolti dallo stesso scetticismo, a dispetto della perfezione stilistica di You’re The Only One, della sua cesellata sezione ritmica, di quelle chitarre che squarciano il tempo . Le lezioni del passato non servono mai a niente.
Lo spiega a meraviglia Alistair Fitchett:

Non sono tra coloro che credono ciecamente nel fascino del passato analogico e non suggerisco che i By The Sea ne siano colpevoli, ma sembra comunque evidente che ‘ Endless Days Crystal Sky ‘ è un album che ha compreso quale fosse la costante del disco in vinile: la sua durata era cronometrata per esaurirsi prima di venire a noia; rifiutando di sprecare solchi importanti su niente di meno che i brani della migliore qualità.

La trovo una perfetta descrizione per i ragazzi di Wirral, e una bugia alla quale ho deciso di credere .
Quanto agli omaggiati, la citazione è d’obbligo. Anche se Jean non è mai più successa.
 

Some days #53: Emma Kupa

emmakupa

Emma Kupa è un nome tosto, devo ammetterlo. Così tanto da farle perdonare quello del suo precedente gruppo, gli Standard Fare (le “Tariffe standard”, giusto per evidenziarne il ridicolo). Ma nemmeno questo – per non parlare del singolo condiviso con la voce di Darren Hayman – mi aveva preparato al tormentone natalizio. Che è arrivato, puntuale ed implacabile, nella forma di questo folkettino d’altri tempi:
 

 
La sua è una voce vintage, di quelle che una volta definivamo ”folk rock”, eppure riesce a conservare tutte le incertezze del suo passato indie. Ne esce una cosa meravigliosa, indecisa tra consapevolezza e ingenuità mentre Emma rischia uno yodeling e azzecca il refrain più appiccicoso della stagione.

Sure it’d be nice to see you
To have you around
A friend in this town

Non riesco ad immaginare niente di più perfetto per chiudere l’anno.

Some days #52: Hussalonia

hussalonia

A un certo punto (anni fa. Sette? otto? otto.) ho smesso di seguire l’attività di Hussalonia, perchè si perdono le buone abitudini prima delle cattive. Il pensiero che avesse continuato a fare musica in tutti questi anni era in qualche modo rassicurante, come se in un angolo della memoria ci fosse un post-it con l’intenzione di recuperare. Ma quando mi sono imbattuto in qualcosa di improbabile come questa specie di Greatest Hits dal notevole titolo di “Pop Does Not Mean Popular” su bandcamp è stato un autentico shock. Io, che credevo di conoscere già tutto di lui, mi sono ritrovato di nuovo sballottato da una parte all’altra. Non conoscevo nemmeno uno di quei venti pezzi eppure erano tutti dannatamente brillanti, distratti distillati di genio pop buttati alle ortiche, come da direttiva aziendale. Molto, molto meglio di quello che mi ricordavo, e di quello che immaginavo.
Adesso, nemmeno un mese dopo, questo:

Registrato per un concorso per i Tiny Desk Concerts di NPR, Avaunt! è un pezzo inedito e soprattutto benvenuto, per almeno due motivi. Il primo è che da quando ho sentito quella compilation ero alla disperata ricerca di un pretesto per scrivere qualcosa su Hussalonia e il secondo è che è una formidabile, ennesima perla pop di un grande genio condannato all’immaturità, e se sembra esserci rassegnazione in queste parole beh, mi spiace perché la musica di Mr. Mank non genera altro che entusiasmo.
Avaunt! è armonia dolcemara, allegorie irreali (“You’re just a dull knife in a drawer full of spoons” in calare), emozionali e dirette che la spengono e riaccendono a ritmi serrati, e ogni volta che ascolto la sua bellezza acustica spero di risentirla un giorno rivestita da uno di quegli arrangiamenti che ti sommergono senza lasciarti scampo.
Sino ad allora, non posso che autocitare il solito indiepop.it:

La sua follia è autocontemplativa, personale e diretta, talmente urgente da accettare come necessità la registrazione lo-fi, e costretta dalla sua stessa premura a non portare a termine quanto cominciato, inseguendo compulsivamente il proprio inarrestabile flusso creativo. Quello che Mr. Hussalonia non può nascondere dietro simili meraviglie è la sua bislacca malinconia, il desiderio di cantare delle cose storte e inesprimibili, come quando passate in macchina davanti alla casa di una vostra ex e i pensieri si accumulano senza mai trovare sfogo. Ecco, qui trova pace Percy “Thrills” Hussalonia, questa è la sua intima e imbattibile forza e al tempo stesso il suo problema: è musica per audience consolidate e confidenti come quella di Eels ed Xtc, ma senza che ci sia un pubblico di proporzioni sufficientemente vaste ad apprezzarla.

Per chi se lo chiedesse, si parlava di questa:

Bei tempi. Per fortuna non sono mai finiti.

Some days #51: Darlings

darlings

Tutte le canzoni recuperate da chissà dove, tutti i gruppi scoperti e riportati su queste pagine non hanno niente in comune con quelli celebrati altrove. Vivono in un’altra dimensione, più privata e ristretta, al riparo dai riflettori. Niente più di questo mi fa venire voglia di scriverne.
E quindi, come genitori amorevoli, ne giudichiamo la volontà e le prospettive, soprassediamo sui difetti consideranone piuttosto le possibilità di crescita. Ogni singolo artista passato da questa rubrica è una stella in divenire, ha un futuro assicurato dalle sue stesse imperfezioni.

Ma i Darlings, da Brooklyn, non appartengono a questa categoria. Ci pensavo e ripensavo, mentre ascoltavo questo impeccabile gioiello:

Non esitano, non stanno imparando. I Darlings sono una dannatissima grande band adesso, e il lavoro di cesello operato su pezzi come questo lo dimostra. Niente imperfezioni, il superfluo limato sino a lisciare l’osso, la proporzione tra gli strumenti, l’equilibrio dell’arrangiamento.
Mein The Sky è un grande pezzo. Non ha bisogno di promettere perché i Darlings rappresentano già la migliore realtà a cui possano ambire. Se lo sono meritato, sono in giro da anni e all’inizio erano bambini in crescita, anche loro. Beh, questo è quello che sono diventati: una band favolosa e in controllo.

Ma è davvero una buona cosa? Fossero stati appena più acerbi li si sarebbe paragonati ai Feelies, epigoni della bellezza distratta e sprecona. E grandissimi, inarrivabili. Oppure no, è lo stesso.

Some days #50: Nervous Twitch

NervousTwitch
Devo scrivere questa cosa in fretta, prima che tutto svanisca.
E’ così che funziona: una canzone ti fulmina, e mentre l’entusiasmo cresce sai che non potrà reggere il peso degli ascolti ripetuti che stai segretamente programmando.
Ma questo è pop/punk, la materia di cui sono fatti i sogni indiepop, e viene da Leeds, città con una irrefrenabile vocazione elettrica (nel senso di improvvise raffiche di scariche statiche): elude le analisi e le spiegazioni, ha la velocità – di durata e di fruizione – nel DNA, muore nello spazio di un singolo:
 

 
Sì, lo so che è difficile distogliere lo sguardo da quei capelli, ma datemi retta un attimo. Le citazioni sono impeccabili, dalla scansione ritmica delle Chiffons al punk sghembo e romanticizzato degli Undertones (la somma dà i Ramones, ovviamente. Ma esiste una guitar band al mondo che non deve tutto ai Ramones?); arrivano senza vergogna, senza paura. E la materia, per quanto grezza, è una delle più preziose al mondo. Sentite qui:
 

 
Sulla scia di band favolose e fraintese come Soup Dragons e Groove Farm. Ma nessuno sarebbe fiero di loro più di questi concittadini:
 

Some days #49: The Peep Tempel

PeepTempel

Questa è davvero fantastica. E’ un classico.
E’ David Gedge che canta “Everyone thinks he looks daft”, è Jonathan Richman che si lamenta di Hippie Johnny, è David Lookofsky che ha una fottuta paura che lei chiami l’altro, è Dolly Parton che supplica la bella Jolene di non rubarle l’uomo.
In realtà Carol è più ancora di tutto questo. E’ affilata come una lama, rovente come il rimorso. Al carico delle delusioni d’amore i Melbourniani Peep Temple aggiungono una rabbia incontinente, un rancore diffuso e soffocato che dissemina le note di un’angoscia palpabile e crescente, talmente densa da non riuscire a liberarsi nemmeno nell’inevitabile esplosione di chitarre.
 

 
Ho parlato di tante break-up songs in questo anno, ma Carol le batte tutte. E’ così autentica da tagliare il cuore. Così la spiega il suo autore:

Ansia. Desiderio irraggiungibile e inappagato. Sei in un pub suburbano, in mezzo a gente che conosci da una vita, e “Carol” comincia a portarci il suo nuovo uomo; e lui è un appaltatore con un fuoristrada HiLux nuovo di zecca. Sei incazzato e hai anche perso soldi scommettendo alle corse dei cani. Vaffanculo.

 

 

E’ così perfetta, non aggiungo altro. Musicalmente deve tutto a quest’altra meraviglia, claustrofobica e decadente, anche lei con un nome di donna per titolo. Potrebbe essere una coincidenza.

 

 
E il testo, il testo è il migliore dell’anno.

I don’t wanna be so sanctimonious
I don’t wanna be such a negative jerk
but I don’t think that Trevor is good for you, Carol

Some days #48: Mitski

mitski

La costruzione è tutto. Quante volte l’ho scritto?
Jobless Monday inizia su una linea di basso, e di solito è un buon segno. La voce che entra subito dopo è insieme profonda ed esitante, come una Hope Sandoval ubriaca. Trenta secondi nella canzone ed arriva la batteria a portarla su territori più familiari e confortevoli, ma ormai il danno è fatto.
Mitski, piccola giapponese giramondo, non si vergogna nemmeno di usare una tastierina da cartone animato e per dare il colpo di grazia ripete la strofa un’ottava più in alto e in chiave dissonante in chiusura di brano. E’ un piccolo manuale di fascino, Jobless Monday, e dissezionarlo non è un’operazione particolarmente utile o intelligente, ma così vanno le cose.
I My Bloody Valentine innestati agli Stones di “As tears go by” virata college-rock, vacua e collosa, tanto sono solo due minuti e rimetterla da capo è un attimo.
 

 
L’atmosfera velenosa si abbina perfettamente all’inverno, con un tempismo non da poco. Non è malinconia, più una sorta di canto funesto, un lamento ai limiti della satira sociale (oh a proposito, non perdetevi il prossimo Some days su Darren Hayman. O uno dei prossimi. Prima o poi, insomma).

Aggiungo che Mitski è accompagnata da un equivoco bello grosso. La cartella stampa che la presenta ai giornalisti lazzaroni recita:

da bambina, Mitski ha fatto parte di un gruppo Taiko dove ha padroneggiato l’arte dei tamburi Taiko giapponesi.

e secondo la stessa fonte avrebbe vissuto anche in Malesia, Congo, Turchia ed altri sei o sette paesi, in un maldestro tentativo di aumentarne l’esotismo oltre i livelli di guardia. Beh, mi spiace per il suo addetto stampa ma ovunque abbia vissuto, la collezione di dischi della ragazza era decisamente made in UK. Come questa: